Check-up gravidanza

Tutti gli esami per la salute di mamma e feto

La gravidanza rappresenta un evento assolutamente sensazionale: un nuovo essere umano si genera, si sviluppa e cresce attraverso un altro essere umano:  un’esperienza emozionale, fisica e mentale, intensa ed indimenticabile. MeriGen ti vuole accompagnare durante questi nove mesi fornendoti tutte le cure e le attenzioni necessarie a garantirti salute e attenzione per te e per il tuo piccolo.

L’obiettivo è “di fornire alla futura mamma più certezze, meno dubbi senza innescare preoccupazioni inutili che molto spesso risultano infondate; allo specialista ginecologo il quadro più chiaro ed esaustivo che la diagnostica moderna possa offrire, con competenza e professionalità”.

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IL CONCEPIMENTO

L’esame necessario: beta-HCG

L’Organizzazione mondiale della sanità  (WHO) fissa l’inizio della gravidanza al momento dell’impianto dell’embrione nell’endometrio della parete uterina. Per altri studiosi invece la gravidanza inizia con il concepimento, cioè coincide con il momento in cui lo spermatozoo incontra l’uovo maturo e lo feconda.

La beta-HCG, dosabile nel sangue e nelle urine, ormone sulla base del quale si diagnostica la gravidanza, è evidenziabile dalla II settimana dal concepimento (IV settimana di età gestazionale).

La durata della gravidanza è di circa 280 giorni (40 settimane).  Il conteggio delle settimane di gravidanza, viene considerato dal primo giorno dell’ultima mestruazione.

I primi mesi (1-2 Fase iniziale periodo embrionale)

Highlights: gli esami preliminari

TORCH
Sierologia virus trasmissibili madre-feto
Elettroforesi delle emoglobine
Screening per rischio trombofilie
Screening per patologie invalidanti

Diventa importante stabilire all’inizio della gravidanza il profilo anticorpale delle future mamme per capire se sono già in grado di difendersi e difendere il proprio feto dagli attacchi di quei patogeni (batteri o virus) che potrebbero compromettere il regolare sviluppo dell’embrione (TORCH = Toxoplasma Gondii – Rosolia virus – Citomegalovirus – Herpes virus) in alcuni casi provocare anche un’aborto spontaneo, oppure di quei virus che durante il parto potrebbero passare dalla mamma al neonato (mescolamento sangue materno-sangue nascituro) infettandolo di conseguenza.

Toxoplasmosi: infezione da toxoplasma gondii; la sieroprevalenza nella popolazione in età riproduttiva è circa del 40%; ciò significa che  il 60% delle donne in gravidanza è quindi a rischio d’infezione con possibile trasmissione al feto. In altri termini, circa 600 su 1000 donne possono contrarre l’infezione in gravidanza. La toxoplasmosi congenita coinvolge 1-10 nati ogni 10.000; basandosi sul dato italiano di 550.000 nascite, si attendono 55-550 casi per anno nel nostro paese. L’infezione acquisita nel corso della gravidanza non è sinonimo di toxoplasmosi congenita, il rischio di trasmissione al feto dipende infatti dall’epoca gestazionale, variando da circa il 6% in caso di infezione materna a 10 settimane di amenorrea, fino a 80% se avviene dopo la 35-36a settimana. Anche il quadro clinico e la gravità dell’infezione congenita dipendono dall’epoca gestazionale in cui avviene l’infezione, ma in modo inversamente proporzionale: più precoce è l’infezione più grave è il danno. pertanto è fondamentale la diagnosi prenatale, vale a dire di accertamenti sulla possibile trasmissione dell’infezione al feto.

La scarsa sintomatologia dell’infezione determina la necessità di un test sierologico per stabilire lo stato immunologico e/o rilevare precocemente la malattia in gravidanza. I test più utilizzati per definire la sieroprevalenza all’inizio della gravidanza, o ancor meglio nel periodo preconcezionale, si basano sulla ricerca e titolazione delle IgG e IgM nel siero materno. La diagnosi d’infezione materna è suggerita dalla comparsa di anticorpi specifici antitoxoplasma (IgG e IgM) in soggetti precedentemente sieronegativi o da un forte aumento del loro titolo dopo un intervallo di almeno tre settimane. La  presenza di anticorpi IgM non è patognomonica di un’infezione recente: possono persistere anche 18 mesi dopo l’infezione ed i kit in commercio per la titolazione possono dare falsi positivi. In ogni caso nessun test da solo si autosostiene, per precisare l’evoluzione dell’infezione è necessario lo studio della cinetica delle IgG su un ulteriore prelievo, la valutazione dell’avidità IgG. La diagnosi prevede in sintesi il dosaggio delle IgM e delle IgG anti-Toxoplasma che soprattutto durante la gravidanza possono fornire degli esiti dubbi (positivi o falsi positivi) o discordanti, ma che possono essere brillantemente risolti con lo studio dell’avidità delle IgG (IgG Toxo Avidity ) in grado di fornire informazioni circa “l’età di produzione” delle IgG rilevate valutando la capacità specifica (avidità) delle stesse a legarsi al target; più risulta elevato il valore di avidità più le IgG sono di vecchia produzione. Nell’eventualità il valore risulti basso ed esiste il fondato sospetto di una infezione in atto si possono confermare o meno i dati con metodi biomolecolari che ricercano direttamente il genoma (DNA/RNA) del patogeno con metodiche di PCR (Polymerase Chain Reaction).

Citomegalo virus: Lo stesso percorso diagnostico viene indicato per quanto riguarda l’infezione da Citomegalo virus (CMV) o il dosaggio delle IgM e delle IgG anti-Citomegalovirus, successiva valutazione dell’avidità delle IgG specifiche (IgG CMV Avidity) presenti ed eventuale conferma biomolecolare (PCR specie-specifica ).

Diventa anche fondamentale in questa fase eseguire una valutazione di rischio per la mamma di non manifestare eventi trombofilici o di alterazione dell’emostasi (rischio cardiovascolare, rischi di pre-clampsia): attraverso lo studio di polimorfismi genetici correlati quali mutazioni sui geni codificanti: il Fattore V della coagulazione (G1691A; H1299R; Y1702C), il Fattore II (G20210A), il gene MTHFR enzima del metabolismo dell’ omocisteina (C677T e A1298C), Beta Fibrinogeno (-455G/A), dell’’inibitore dell’attivatore del Plasminogeno (PAI I Serpina I) ed altri polimorfismi associati ad un rischio cardiovascolare. Questo perché è stato dimostrato che questi polimorfismi a carico del DNA materno possono essere dei fattori di rischio per la salute della mamma e del feto proprio durante la gravidanza.

Inoltre lo studio su entrambi i genitori dei geni che codificano le catene emoglobiniche (Alfa e Beta Globina) trasportatori dell’ossigeno alle cellule, il gene del Fattore VII del Fattore VIII e del Fattore IX della coagulazione oppure del gene CFTR, possono darci indicazioni in anticipo sul rischio del nascituro di manifestare patologie come le Alfa o Beta Talassemie, l’Emofilie o la Fibrosi Cistica.  Lo studio del gene FRM1 sul cromosoma X per quanto riguarda la sindrome di Martin Bell (patologie legate all’ X-Fragile) oppure del gene della Connessina per quanto concerne le sordità congenite.

IL CORE DELLA GRAVIDANZA
(3-6 mesi Fase intermedia o periodo fetale)

Highlights: gli esami del periodo fetale

Duo-test
Duo-test Approfondito
Tri-Test
Monitoraggio TORCH
Villocentesi, Amniocentesi, Cordocentesi prelievo del materiale biologico utile ad eseguire esami quali: QF-PCR /Cariotipo /FISH / CGH-Array / Screening malattie genetiche sul feto/ screening o conferma biomolecolare TORCH sul feto

Il Duo-test eseguito tra le settimane di gestazioni 10+0 e 13+6, calcola statisticamente il rischio che il feto sia affetto da una delle maggiori anomalie cromosomiche: trisomie dei cromosomi 13, 18 e 21 (Sindromi di Patau, Edward e Down) e monosomia del cromosoma X (Sindrome di Turner). E’ necessario conoscere:

  • l’età materna alla data presunta del parto per stimare il rischio “a priori”  di cromosomopatie.
  • dati anamnestici quali: peso, se è la prima gestazione, se ci sono state precedenti gravidanze con cromosomopatie, presenza di diabete, abitudine al fumo, gravidanza esitata dopo fecondazione in vitro, numero di feti;
  • La lunghezza cranio-caudale (CRL) per stimare l’età gestazionale del feto;
  • Lo spessore della translucenza nucale;
  • La concentrazione delle proteine Pregnancy-Associated Plasma Protein A (PAPP-A) e beta-Human Chorionic Gonadotropin libera (free beta-HCG).

In uno studio su 75821 gravidanze (Ultrasound Obstet Gynecol 2005; 25: 221–226) si evidenzia con chiarezza quali siano i limiti dell’approccio del duo-test classico:

Cariotipo N R ≥ 1:300 Specificità Falsi Positivi Sensibilità Falsi Negativi
Normale 75277 3909 94,8% 5,2%    
Trisomia 21 325 301     92,6% 7,4%
Trisomia 18 o 13 122 108     88,5% 11,5%
Sindrome di Turner 38 33     86,8% 13,2%
Triploidia 28 27     96,4% 3,6%
Altro 31 23     74,2% 25,8%


Il Duo-test mostra un tasso medio di falsi negativi del 13%. Per diminuire il numero di falsi negativi è possibile introdurre, oltre alla translucenza nucale, altri segni ecografici che possono essere rilevati in dodicesima settimana.

Marcatori ecografici “maggiori” che si possono utilizzare sono:

  • La presenza e la lunghezza dell’osso nasale
  • La forma dell’onda A nel dotto venoso (Positiva/Assente/Invertita)
  • Il rigurgito della valvola tricuspide

Marcatori ecografici “minori” che si possono utilizzare sono:

  • La frequenza cardiaca fetale
  • L’arteria ombelicale singola/doppia
  • La presenza di pulsazioni nella vena ombelicale

Lo stesso studio citato in precedenza (Ultrasound Obstet Gynecol 2005; 25: 221–226) calcola le performance dei 3 marcatori ecografici “maggiori”, usati singolarmente, nell’individuare la Trisomia 21.

Marker Euploidi (N=75277) Specificità Trisomia 21 (N=325) Sensibilità
Osso Nasale 1610 97,86% 299 92,00%
Dotto venoso 2047 97,28% 306 94,15%
Valvola tricuspide 2070 97,25% 298 91,69%


Mediamente hanno una specificità del 97% (quindi solo il 3% dei feti euploidi mostra questi marcatori pur essendo sani) e una sensibilità del 93% (quindi solo il 7% dei feti con T21 non mostra il marcatore).

Quindi per una donna che mostrasse un Duotest con un rischio di 1:300, nel Duotest approfondito l’assenza dei 3 marcatori fa scendere il rischio a 1:712.457; la presenza di 1 solo dei 3 marcatori fa attestare il rischio intorno a 1:1.500 (0,07%); la presenza di 2 dei 3 marcatori fa attestare il rischio intorno a 1:4 (25%); la presenza di tutti e 3 i marcatori porta il rischio a oltre il 99%.

Rischio Osso Nasale Dotto Venoso Rigurgito tricuspide Rischio
1:300
(0,33%)
1:712.457
+ 1:1.355
+ 1:1.238
+ 1:1.826
+ + 1:3,4 (29,85%)
+ + 1:4,5 (22,38%)
+ + 1:4,2 (23,99%)
+ + + 1:1,006 (99,40%)


In uno studio prospettico effettuato su oltre 5000 gravidanze (Ultrasound Obstet Gynecol 2012; 39: 528–534), l’aggiunta dei 3 marcatori “maggiori” al Duo test ha prodotto i seguenti risultati:

Euploidi T21 T18 Altro
177/4647 16/16 8/8 10/10


In questo studio prospettico vediamo come la specificità aumenti di circa 1.5 punti percentuale, mentre tutti i feti con cromosomopatia vengono correttamente identificati (falsi negativi = 0).

Per quanto riguarda i marcatori “minori” essi hanno il compito di ridefinire il rischio ancora più specificamente.

La frequenza cardiaca fetale è il marker maggiormente indicativo di una presenza di Trisomia 13. Nel lavoro Human Reproduction 2008;23:1968–75 si mostra come, mentre i feti con trisomia 21 e 18 sono sostanzialmente euritmici, circa l’80% dei feti con trisomia 13 sono decisamente tachicardici.

La presenza di una singola arteria ombelicale, invece, è un segno presente soprattutto nei feti con trisomia 18 (Ultrasound Obstet Gynecol 2003; 22: 567–570):

Cariotipo N AOS Specificità Falsi Positivi Sensibilità Falsi Negativi
Normale 634 21 96,7% 3.3%    
Trisomia 21 44 5     11,4% 88,6%
Trisomia 18 18 14     77,8% 22,2%
Altro 21 2     9,5% 90,5%


Un altro lavoro (Ultrasound Med 1999; 18: 543–546) mostra l’incidenza di un pattern pulsatile all’interno della vena ombelicale:

Cariotipo N PVO Specificità Falsi Positivi Sensibilità Falsi Negativi
Normale 302 73 75,8% 24,2%    
Trisomia 21 18 6     33,5% 66,7%
Trisomia 18 13 12     92,3% 7,7%
Trisomia 13 5 4     80,0% 20,0%

Solo presso il ns. laboratorio è possibile eseguire il “Duo-test Approfondito”

Per quanto concerne il Tri-test è stato praticamente sostituito dal duo test poiché  più specifico, più affidabile e precoce, ma con le stesse finalità. Il tri-test viene eseguito più tardi, tra la quindicesima e la ventesima settimana di gestazione, e si basa sull’analisi delle concentrazioni sieriche di tre markers biochimici: l’alfafetoproteina, l’estriolo non coniugato e la gonadotropina corionica umana.

Il tri-test integrato con dosaggio di inibina A (quadruplo test o quad test)) – continua ad essere intrapreso nei casi in cui, per varie ragioni, la gestante non abbia potuto sottoporsi in tempi utili ai suddetti esami.

In sintesi lo scopo di questi test è solo quello di identificare le donne a maggior rischio, a cui offrire la possibilità di eseguire successivamente una villocentesi (prelievo ed esame dei villi coriali) o un’amniocentesi (prelievo ed esame del liquido amniotico) od in ultima analisi una cordocentesi (prelievo ed esame dal cordone ombelicale) su cui eseguire ulteriori e più approfondite indagini direttamente sulle cellule ed il materiale biologico proveniente dal feto.

Essendo delle valutazioni basate sulla statistica in alcun modo possono essere considerati diagnostici ma predittivi, pertanto non si può fare una diagnosi, ma esprimere semplicemente una probabilità di rischio.

Se questa probabilità di rischio calcolata esprime un valore alto ci si sottopone agli esami diagnostici approfonditi.

Il monitoraggio del TORCH è funzione dei risultati ottenuti nella fase iniziale, potrebbe essere indispensabile eseguire questi test tutti i mesi sino al termine della gravidanza quando i risultati iniziali indicano che la gestante non possiede degli anticorpi IgG specifici per tali patogeni, al contrario non più necessari.

Anomalie cromosomiche: Quando ci si sottopone ad un test di screening per le anomalie cromosomiche bisogna tener presente che:

  • se il rischio di malattia è ridotto, non significa che sia zero.
  • se il rischio di malattia risulta elevato questo non implica necessariamente che il feto sia affetto da anomalia cromosomica; piuttosto, significa semplicemente che il rischio è abbastanza elevato da giustificare un esame invasivo di approfondimento (villocentesi, amniocentesi o cordocentesi).
  • Bisogna anche valutare l’eventuale predisposizione psicologica ad una scelta  “difficile e dolorosa” come conseguenza successiva ai risultati di tali esami.

Fino ad oggi ci si è sempre avvalsi solo della citogenetica classica per determinare il cariotipo mediante coltura di cellule fetali e per rilevare aneuploidie e riarrangiamenti cromosomici. Tuttavia questa tecnica richiede un quantitativo di campione relativamente grande (circa 20 ml di liquido amniotico e 2-5 mg di villo ) ed ha tempi lunghi di refertazione (circa 21 giorni). Questo lungo periodo di attesa che intercorre tra il prelievo e la comunicazione dei risultati può generare tensione psicologica ed ansia, in alcuni casi è stato dimostrato come questo periodo di incertezza sul futuro della gravidanza possa influenzare lo sviluppo del feto ritardando il legame materno-fetale. E’ per questo che metodi diagnostici capaci di dare risultati entro pochi giorni dal prelievo del campione sono stati una preziosa scoperta.

La capacità di individuare in modo rapido un’aneuploidia è la principale caratteristica della QF-PCR (Quantitative Fluorescence Polymerase Chain Reaction) una tecnica di biologia molecolare che può essere utilizzata sia in fase prenatale che post-natale.

La tecnica si basa sull’amplificazione in vitro del DNA estratto dalle cellule fetali presenti nel liquido amniotico. Permettendo una diagnosi rapida di alcune aneuploidie fetali quelle relative ai cromosomi 21, 13, 18, X e Y

Le regioni amplificate sono sequenze di DNA ripetute (STR) altamente polimorfiche (i.e. ogni individuo si differenzia dall’altro per un proprio, specifico, assetto cromosomico). Il rapporto tra la quantità di alleli amplificati nello stesso locus è informativa riguardo al numero di copie di cromosoma presenti nel campione.

Il nostro laboratorio ha messo a punto un saggio di QF-PCR in grado di analizzare la presenza di aneuploidie simultaneamente per i cromosomi 21, 18, 13, X e Y. Così come indicato nelle linee guida per la QF-PCR proposte dalla CMGS (Clinical Molecular Genetics Society-2007 v2.00):

  1. i marcatori scelti presentano un’alta percentuale di eterozigosità (> 75%);
  2. sono costituiti da repeats di 3-5 nt (tali da produrre un numero minimo di artefatti durante l’amplificazione);
  3. la reazione è stata allestita in modo da visualizzare un minimo di 4 differenti marcatori per ogni cromosoma, onde ridurre il numero dei risultati non informativi dovuti ad omozigosità per singoli loci;
  4. un risultato è interpretato come “anormale” se almeno 2 marcatori informativi danno un risultato consistente per uno stesso genotipo aneuploide;
  5. nella scelta dei marcatori è stata posta particolare attenzione a che gli stessi fossero distribuiti lungo ciascun cromosoma, in maniera da aumentare la possibilità di individuare anche parziali aneuploidie.

Le anomalie evidenziate attraverso QF-PCR, possono essere solo di tipo numerico e vengono distinte in monosomie, quando è presente una sola copia del cromosoma X anziché due (Sindrome di Turner), e trisomie quando sono presenti tre copie di uno stesso cromosoma.

Le aneuploidie dei cromosomi sessuali sono studiate con 8 diversi marcatori, così da rafforzare il valore diagnostico del test nei casi di monosomie per il cromosoma X. Il saggio che abbiamo messo a punto individua, in aggiunta alla monosomia per il cromosoma X (sindrome di Turner, X0) anche altre aneuploidie sessuali quali la 47,XXY (sindrome di Klinefelter) e la 47,XYY.

Considerato che queste ultime aneuploidie sono associate con un fenotipo clinico moderato, l’impatto etico e morale in diagnosi prenatale è notevole e pertanto all’atto dell’accettazione è richiesto il formale consenso all’esecuzione del test sui cromosomi sessuali e alla comunicazione del risultato riguardante le aneuploidie del cromosoma Y.

Poiché la QF-PCR fornisce informazioni relative solo al numero di alcuni cromosomi e non offre informazioni sulla loro struttura o sulle aneuploidie di cromosomi diversi da quei 5 citati, viene solitamente affiancata alla citogenetica classicaTuttavia tra le aneuploidie, le trisomie 21, 18, 13 e le aneuploidie dei cromosomi sessuali (es. monosomia X), comprendono circa l’80-95% delle possibili anomalie cromosomiche rivelabili tramite la determinazione del cariotipo, e sono quindi quelle maggiormente responsabili di malformazioni fetali. Nei casi in cui si scelga di eseguire la QF-PCR in modo indipendente bisogna ricordare che questa tecnica non può rilevare tutte le patologie cromosomiche rare dovute a riarrangiamenti strutturali o numerici di cromosomi non compresi tra quelli in esame. Per questo nei casi in cui ci sia una prescrizione all’esame per rischio aumentato di anomalie cromosomiche, non può considerarsi un’alternativa all’indagine citogenetica tradizionale, ma una tecnica che si affianca a questa fornendo elementi di valutazione diagnostica in largo anticipo.

Nei casi in cui i risultati del DUO TEST suggeriscano un rischio elevato e/o il ginecologo lo ritenga opportuno sulla base di altri fattori, la gestante è sottoposta ad amniocentesi. Tale indagine consiste nel prelievo di liquido amniotico e viene effettuato durante la quindicesima settimana di gravidanza.

Nel liquido amniotico sono presenti cellule definite amniociti, di provenienza fetale che rappresentano materiale di studio della citogenetica classica. Questa branca della biologia che ha lo scopo di determinare aneuploidie (monosomie, trisomie) e riarrangiamenti cromosomici (inversioni, duplicazioni, delezioni e  traslocazioni di pezzi cromosomici). Spesso le variazioni in termini di numero o struttura  cromosomica sono note in letteratura  e già associate a patologie, tra le più note, la sindrome di Down (trisomia del cromosoma 21), la sindrome di Turner (monosomia del cromosoma X) e Klinefelter (XXY).

Per la determinazione del cariotipo (rappresentazione ordinata del corredo cromosomico di un individuo),  le cellule amniocitiche  vengono coltivate in vitro in presenza di terreno nutritivo, in genere per circa 10-12 giorni. Una volta giunte a confluenza, i cromosomi vengono bloccati in metafase e  fissati su di un vetrino.

 I vetrini vengono colorati mediante una tecnica citologica definita bandeggio che permette di evidenziare  regioni (bande) di colore più o meno intenso, la cui disposizione  è caratteristica di ciascun cromosoma.

Un normale assetto cromosomico è composto da  23 coppie, di cui 22 sono autosomiche  ed una coppia di cromosomi sessuali  XX (nel caso della donna) e XY (nel caso dell’uomo).

L’analisi citogenetica  ha come limite un  tempo di refertazione piuttosto lungo causato dalla lenta crescita cellulare, ragion per cui risulta evidente l’importanza d’associare a tale indagine altri esami, come la QF PCR che permette di diagnosticare in breve tempo le aneuploidie più gravi.

Quando il cariotipo mostra anomalie è necessario affinare l’indagine e chiarire la composizione della porzione cromosomica in esame. È importante scegliere indagini che forniscano opportuno supporto come la  FISH o il CGH Array.

FISH (Fluorescent in situ hybridization) – L’ibridazione fluorescente in situ (FISH)  è una tecnica usata in citogenetica, generalmente  per approfondimenti diagnostici, al fine di  determinare la presenza o l’assenza di specifiche regioni cromosomiche.

 L’identificazione viene effettuata utilizzando sonde fluorescenti complementari alle regioni di DNA prese in esame. Le sonde disponibili sono molteplici e vengono opportunamente selezionate in base alla necessità diagnostica.

Questa tecnica è usata in diagnostica clinica in casi come lo studio della sindrome  di DiGeorge (sindrome da delezione 22q11.2), malattia causata da un difetto nel cromosoma 22, che determina lo scarso sviluppo di diversi sistemi del corpo.

La FISH è una tecnica specifica e selettiva e questo è al contempo un suo punto di forza ed uno dei suoi limiti, infatti è estremamente mirata e rende possibile l’identificazione di mutazioni presenti solo  in loci specifici e precedentemente selezionati.

ARRAY CGH (CARIOTIPO MOLECOLARE) – Un esame di approfondimento diagnostico che consente di estendere l’indagine all’intero assetto cromosomico è l’array CGH (COMPARATIVE GENOMIC HYBRIDITATION).

Il cariotipo molecolare è ottenuto dall’analisi del dna fetale; verifica anch’esso la presenza di aneuploidie cromosomiche numeriche e strutturali con una risoluzione maggiore rispetto alla citogenetica classica  di 100 o 1000 volte, estendendo  così la ricerca a  microdelezioni e microduplicazioni.

La tecnica si basa sul confronto del dna fetale con uno di riferimento. Entrambi gli acidi nucleici sono marcati con molecole fluorescenti di colore diverso, mescolati in parti uguali ed ibridati su di un  microarray. Su questo chip sono fissate sonde che rappresentano l’intero genoma umano ed in base alla loro densità e tipologia viene determinato il potere risolutivo della piattaforma stessa. L’esito dell’esame deriva dal confronto tra l’emissione di fluorescenza del riferimento ed il dna in esame.

Questa tecnica di recente introduzione è fondamentale per determinare trisomie e monosomie oltre che di cromosomi interi anche di regioni cromosomiche limitate, spesso associate a  ritardi mentali, a sindromi malformative, a disturbi neurologici (es. autismo ed epilessia) e diverse patologie tumorali.

Questa tecnica si sta facendo largo nel mondo della citogenetica sia per il suo elevato potere risolutivo esteso lungo l’intero genoma che per il mancato bisogno di ricorrere a coltura cellulare, riducendo così i tempi di refertazione.

Screening malattie genetiche sul feto: lo studio dei geni precedentemente indagati sui genitori relativamente ai polimorfismi del DNA lì dove i risultati ottenuti richiedano una verifica diretta sul DNA fetale.

Screening o conferma biomolecolare TORCH sul feto: quando i risultati degli esami eseguiti in precedenza sulla madre richiedano una conferma diretta sul materiale biologico fetale, oppure per verificare se il patogeno abbia attraversato o meno la barriera placentare ed infettato il feto.

L’ATTESO EVENTO
(6-9 mesi Fase finale nascita del nuovo individuo)

Highlights: gli esami degli ultimi 3 mesi

Controlli batteriologici pre-parto
Sierologia virus trasmissibili madre-feto
Gruppo sanguigno
Rischio pre-clampsia (polimorfismi PAI-1, Beta Fibrinogeno, Dimero D, FDP)
Cordocentesi prelievo del materiale biologico dal cordone ombelicale

Al termine della gravidanza e prima del grande evento: “la nascita” bisogna effettuare gli ultimi controlli per la salvaguardia e l’incolumità del nascituro, soprattutto per prevenire la trasmissione verticale madre-figlio di batteri o virus patogeni che potrebbero in caso di infezione essere pericolosi per il neonato. Soprattutto nei primi mesi di vita dove il sistema immunitario non è ancora sviluppato.

Streptococcus agalactiae: lo streptococco beta emolitico di gruppo B (SBEGB) è un batterio di particolare interesse, soprattutto per quanto riguarda le infezioni neonatali; responsabile di meningite e polmonite nei neonati, è infatti dimostrato che una gestante affetta può trasmettere il batterio al figlio durante il parto: quindi il rischio di trasmissione verticale (madre-feto) risulta molto elevato, con conseguenze gravi.

IL tampone vaginale e rettale viene quindi eseguito proprio per stabilire l’assenza o la presenza di questo batterio dal momento che è un componente della flora batterica umana. Tuttavia, in condizioni ad esso favorevoli, si trasforma da commensale ad opportunista patogeno.

Lo stesso dicasi per quanto concerne la trasmissione verticale delle infezioni causate da virus come HBV (Hepatitis B virus), HCV (Hepatitis C virus), HIV (Human Immunodeficiency virus) risulta pertanto importante stabilire le condizioni della madre per poter prevenire/intervenire/limitare i rischi per il neonato di contrarre un’infezione.

La preeclampsia si sviluppa nel 5% delle donne gravide, generalmente nelle primigravide e nelle donne con ipertensione, affezioni vascolari  o con fattori di rischio preesistenti (fattori di rischio genetici correlati). Se non trattata, la preeclampsia rimane generalmente stazionaria per un tempo variabile e poi improvvisamente procede fino all’eclampsia. L’eclampsia si sviluppa in 1 ogni 200 pazienti pre-eclamptiche e ha, in genere, un esito fatale se non trattata. Una complicanza maggiore della preeclampsia è il distacco placentare, che è apparentemente provocato dall’interessamento vascolare e quindi riconducibile come possibili cause anche ai fattori di rischio genetici correlati alle trombofilie.

 La malattia influenza l’esito materno e fetale ed è la principale causa di parto prematuro e di conseguente mortalità neonatale. La preeclampsia può svilupparsi dalla 20a settimana di gestazione fino a 48 ore dopo il parto. Viene diagnosticata, di norma, dopo la 34a settimana di gestazione. Un’insorgenza precoce (20–34 settimane) è associata a gravi pericoli per la madre e il feto. Alcuni gruppi di donne in gravidanza sono particolarmente a rischio, tra cui donne con: pressione arteriosa diastolica ≥80 mmHg in occasione della valutazione iniziale; proteinuria in occasione della valutazione iniziale; una precedente anamnesi personale o familiare di preeclampsia; una gravidanza multipla e condizioni mediche preesistenti, compresa l’ipertensione cronica, il diabete mellito, la nefropatia e la malattia autoimmune. Fattori di rischio moderati sono: prima gravidanza; età materna ≥40 o <20 anni; ≥10 anni dal parto precedente e BMI (indice di massa corporea) ≥35.

La preeclampsia è risolvibile unicamente con il parto. L’obiettivo del medico è gestire la patologia materna concedendo contemporaneamente al feto il tempo necessario per maturare e svilupparsi. La prognosi dipende dalla fase della gestazione in cui si manifesta la preeclampsia. Tuttavia, una preeclampsia che si manifesta tardivamente ha una prognosi significativamente migliore rispetto a una preeclampsia che insorge precocemente, dato che il parto può essere indotto con minori rischi per la madre e il nascituro. Certamente conoscere in fase iniziale il grado di rischio valutato attraverso lo screening genetico ed associato ai fattori di rischio non genetici aiuta lo specialista a gestire al meglio l’intero ciclo.

(A cura di: Donato Labella, Palmira D’Ambrosio, Imma Di Biase.)